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  • Marcello Usai

Oltre la soglia dell’Eterno – Parte prima

Aggiornamento: 20 lug 2022


“Nella bellezza io cammino,

là dove nasce il Sole.

Nella bellezza io cammino,

là dove il Sole compie il suo viaggio.

Nella bellezza io cammino,

là dove il sole va a morire.

Nella bellezza io cammino,

tutto intorno a me la Terra è bellezza.

Nella bellezza io cammino.”


Canto Yebichai, Navajo




Osservai i miei piedi sporchi di terra, dinanzi all’ingresso della grotta, sperando di avere un segnale dall’esterno per capire cosa fare. La guardai e riguardai attentamente quell’apertura, uno squarcio nella roccia calcarea, coi bordi consumati dal tempo, dall’acqua e dallo strofinìo delle mani di altri visitatori succedutisi nei secoli, e valicai il suo ingresso a passo lentissimo. Coi cinque sensi amplificati, un cupo stimolo sonoro in lontananza accompagnava i miei movimenti come il ritmo ripetitivo generato da una percussione. Si, un tamburo. Ad ogni suono si percepiva l’acre odore della pelle, percossa da delle dita, che mi arrivava addosso simile ad un vento caldo.

Questo vento si contrapponeva al gelo della grotta, un gelo che sapeva di muschio e brillava di un verde spento nei contorni del campo visivo. Era come se il ritmo del tamburo mi scaldasse l’accesso a quell’antro freddo e oscuro.

Accesi una piccola torcia, il tanto di illuminare di fronte a me debolmente, e con gambe insolitamente pesanti procedetti un po’ a caso in maniera diritta, privo di un riferimento preciso; quattro passi di fronte a me e poi lievemente a destra, dove la grotta si faceva ancora più scura e il freddo, intervallato da correnti interne tiepide e ritmate, si faceva sempre più intenso e meno sopportabile.

Allungai le braccia in avanti e cercai in mezzo a quel nero un appiglio, o comunque un sostegno che mi impedisse di cadere, accarezzando con le punte delle dita quel calcare granuloso che si sbriciolava fra le mani e che cadendo sul piano della grotta faceva un fracasso infernale; fracasso che probabilmente sentivo solo io, a causa di quei sensi così attivi, e con mia grande, anche se poco piacevole, sorpresa.

Tastando alla cieca, un po’ vero l’alto, un po’ verso i lati, mi accorsi che la grotta riduceva le sue dimensioni e sembrava quasi volersi chiudere su di me, come delle fauci litiche, costringendomi ad inchinarmi e procedere sfiorando il terreno con le ginocchia. Ogni metro in avanti con quel suono caldo che veniva dal mio interno e quelle punture incessanti sulla pelle generate dal freddo della grotta, i metri percorsi sembravano centinaia e la situazione rendeva il tutto alquanto claustrofobico e faticoso. Decisi di fermarmi, feci un paio di sospiri rapidi chiudendo gli occhi, e qualche secondo dopo li riaprii, accorgendomi che la piccola torcia che portavo con me e tenevo appesa alla cinta, aveva smesso di funzionare. Mi ritrovai completamente al buio, la debole illuminazione naturale esterna alla grotta sembrava scomparsa, ed io potevo solo procedere oppure tornare indietro. Decisi per l’uscita, la paura vinse sulla voglia di scoprire.

Tornai indietro senza voltarmi, strisciando piedi e ginocchia all’indietro sul pavimento terroso, graffiandomi gambe e collo dei piedi in questa andatura innaturale; qualcosa però sembrava non tornarmi, non riuscivo a percepire, come logica voleva, il soffitto della grotta sopra di me rialzarsi per permettermi di tornare in piedi, voltarmi e uscire da dove ero entrato.

Nulla appariva come prima, a parte quel suono ritmico e caldo che adesso accelerava e rendeva le vampate, ad ogni rintocco del tamburo, sempre più forti, simili a scottature e improvvise, ed in un attimo smisi di sentire il freddo che la grotta emanava fino ai secondi precedenti. Dietro di me tutto appariva come un angusto e lungo antro buio, esattamente uguale a ciò che avevo davanti. Non essendo consapevole né di dove stessi andando, ne di dove sarei finito tornando indietro, in una via che non era più quella precedente, dovetti fermarmi un attimo nell’immobilità più assoluta, boccheggiando dal panico per diversi minuti. Le mani tremavano, la voce quasi non funzionava per gridare un inutile aiuto e la paura paralizzò ogni singolo movimento.

“Attacca o fuggi” era il mio ricordo automatico, memore degli studi fatti sulle risposte biologiche che ogni essere vivente mette in atto in quei momenti di paura, quando si sente braccato da un ipotetico o reale predatore, che in quegli istanti aveva per me le geniali fattezze di un signor Nessuno, ancora più difficili da cogliere per una mente umana che, nonostante tutto, si era evoluta nel tempo su costrutti di credenze perlopiù analogiche ed astratte.

In quella paralisi incomprensibile, sentivo le forze abbandonarmi, il che permise di mettere in pausa un groviglio infinito di pensieri ricorrenti e apparentemente illogici, consentendo quindi al mio lato cosciente e calcolatore di spegnersi, e generando la manifestazione in me di qualcos’altro.

Non so se ci vollero secondi, minuti o ore, si percepiva tutto così sospeso che fare valutazioni temporali diveniva veramente impraticabile; seguii l’unica via possibile a quel punto, ovvero quella di continuare in quell’antro per vedere fino a dove mi avrebbe portato. ≪D’altronde, se tutto dietro di me è mutato impedendomi l’uscita, qualcosa vorrà pur significare≫ pensai, in un attimo di riaccensione della fiammella della fiducia.

Spinsi quindi con le mie mani sulle pareti laterali e molto lentamente proseguii, cercando di percepire la forma geometrica disegnata nell’aria e sulla terra ruvida sotto di me di ogni passo che facevo, sempre più in profondità. Senza interruzione nel buio pesto, affidandomi solo ai miei sensi rimanenti, tornati ad essere decisamente amplificati, dopo quei precedenti momenti di paura paralizzante.

Come prima non potei valutare i minuti, non riuscii nemmeno a intuire la distanza percorsa, perché mi ritrovai a scendere sempre di più fino al punto di dover strisciare all’interno di un corridoio dalle pareti di roccia, con il petto compresso sulla terra che raschiava ad ogni scivolata in avanti e le mani che cercavano appigli appena abbozzati, per trascinarmi oltre quel gorgo che pareva interminabile. Cominciava a mancarmi l’aria e l’agitazione scalpitava prepotente nel mio torace, facendo rimbombare i battiti nelle orecchie tanto da sembrare di sentirne l’eco all’interno del minuscolo ambiente in cui mi trovavo imbottigliato; spinsi con le ultime forze che mi rimanevano per un ultimo movimento in avanti, col petto e il ventre graffiati e le mani dai polpastrelli sanguinanti. Raschiai anche la nuca qualche volta, procurandomi di certo qualche graffio e rendendomi conto di quanto quel cunicolo fosse basso e ristretto.

Proprio in quel momento avvertii un tonfo sulle nocche; una specie di pietra piana e larga si frapponeva al mio doloroso strisciare, ma che mi permise di utilizzarla come sostegno per spingermi un po’ oltre. L’apertura infatti, poco prima di questo ostacolo si allargava, e mi permetteva di essere espulso come un oggetto estraneo fuori da quel gigante di roccia che pareva volesse relegarmi da qualche altra parte.

Un profumo pungente di erbe mediterranee si diffondeva dalle pareti dell’ambiente in cui ero riuscito ad entrare, in quella che per l’eco dei suoni generati dai movimenti dei miei piedi, sembrava una stanza semicircolare; provai ad alzarmi, capii che il buio era l‘unica costante con l’ambiente angusto precedente, per il resto potevo muovermi almeno verso l’alto, e dovevo provare a verificare col tatto quali limiti quel luogo avesse.

Un imponente utero della Madre Terra, era ciò di più vicino a cui potevo avvicinarmi per definire nella mia ricostruzione mentale questo spazio, che poteva ridestare l’ancestrale ricordo insito nel subconscio profondo di ogni essere umano, protetto così dagli attacchi di un esistenza vissuta ai limiti della veglia di coscienza.

“Ma dove rinasce un individuo adulto già venuto una volta al mondo? Vidi già la luce dell’esistere, ora che vuole da me la Vita?” erano i quesiti che quel luogo generava in me.

Allungai per la seconda volta le braccia, ormai doloranti dal lungo strisciare precedente sulla roccia, e cercai delle pareti, nella speranza di appoggiarmi, ma anche con una paura terrificante di cadere in un eventuale vuoto; ogni cosa qua d’altronde avevo visto si modificava attorno a me e dentro di me senza che io riuscissi a darmene una spiegazione accettabile.

Poco dopo toccai una parete fredda, compatta, fatta di una roccia che era percepibile al tatto come differente da quella calcarea dell’imbocco della grotta, nell’ambiente ampio in cui iniziò questo incomprensibile cammino.

Una inattesa sensazione di nausea cominciava ad affiorare all’altezza dello stomaco e a stordirmi nel contatto con quella roccia, che percepivo antica quanto il mondo stesso, e che sembrava mi parlasse dentro, comunicandomi immagini interiori indecifrabili, simboli e forme mai viste che passavano davanti come i graffiti metropolitani dipinti su un treno che ti corre rapidamente dinanzi durante la sua inarrestabile corsa; una miriade di forme e colori sovrapposti esplosero nella mia mente già provata da quella situazione oltremodo intricata da rendere a parole.


Et_En El Unul Kl_Aut


Tali furono le prime parole, o suoni confusi, che udii in un apparente idioma mai sentito prima di quel momento.

Certo, fui sconcertato. Profondamente.

Informazioni che giungono da qualche parte, dimensione, mondo, universo, realtà altre, ed io non sapevo decodificare nulla, ero nel pieno di un’esperienza inesplicabile e mi sentivo frustrato e privo di strumenti utili per cogliere tutti quei messaggi.

≪I messaggi sono solo nella mia mente? Forse dovrei solo lasciarli scorrere senza tentare di fermarli. Forse. O forse dovrei centrarmi, dovrei stare presente a ciò che già stavo facendo prima, e cioè cercare la via d’uscita da questo luogo. Sono qui per un motivo, o forse più di uno≫ pensai, accompagnato da quella persistente sensazione di nausea ereditata da questi energetici e disordinati flussi di comunicazione con un luogo che pareva vivo, ed aveva un suo Spirito che comunicava in modalità mai immaginate prima. Qualcosa di profondamente più espanso delle informazioni o dei piccoli messaggi che potevo cogliere quando riuscivo a dedicarmi in maniera profonda alla meditazione ed alle mie pratiche spirituali.

≪Questo continuo tastare deve portarmi da qualche parte, prima o poi≫.

Cercai così di consolarmi, nel mentre che le mie mani scivolavano lungo quelle lisce e nude pareti in pietra. Posai a un tratto i piedi su una lastra che percepivo più liscia e levigata delle altre, e provai ad allungare uno degli arti inferiori davanti a me, come a voler individuare un ostacolo.

Delle gocce scesero dall’alto, e mi accarezzarono la spalla destra, al che alzai le mani verso l’alto per cercarne la sorgente; toccai un elemento vegetale, pareva simile ad una felce, e mi accorsi che convogliava sulla forma allungata della foglia, un leggerissimo flusso liquido che proveniva da un punto ancora più alto di quel vasto ambiente. Cercai quindi qualche deposito sul terreno, per capire se lo scorrimento su qualche pendenza potesse mai condurmi verso un’uscita, trovando un deposito liquido che sfiorai con la punta delle dita proprio un passo più avanti a me.

Mi sentii bruciare i polpastrelli, comprendendo che quella che pensavo fosse acqua era qualcosa di molto più aggressivo, ma la sensazione urticante passò nel giro di qualche minuto; avvicinai le dita al naso e sentii un pungente e concentrato odore di zolfo misto a quello simile a dell’olio bruciato, anche se i resti sulla mano non presentavano la classica sensazione oleosa al tatto. Un’intuizione mi disse di cercare i limiti di quella pozza, perciò mi abbassai verso il terreno e mi inginocchiai sfiorando con le mani i bordi pietrosi di quella conca, che trovai subito, e percorrendoli con le dita scoprii una forma circolare che valutai in circa ottanta centimetri di diametro.

Fu in quel momento che avvertii una forte stretta al polso destro, poi al sinistro, che mi fece subito sobbalzare e mi spinse per istinto a tirare nella direzione opposta per cercare di divincolarmi. Non riuscii. Ero immobilizzato senza la possibilità di fare alcun movimento, e non arrivavo a comprendere se quella fosse la paura o una sensazione di smarrimento imposta dall’esterno; questi istanti parevano infiniti e terminarono nell’attimo in cui quella medesima forza che guidava la stretta ai miei polsi, mi trascinò verso il basso a testa in giù nelle profondità di quella piccola oscura pozza.



Continua…



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